Fritz Leiber – L’esperimento di Daniel Kesserich. Uno studio sul caso di follia collettiva a Smithville (1998)
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Sapore d’altri tempi. Certo, ma con un pizzico di straniamento riscopriamone fino in fondo questa sensazione. Perché se guardiamo con affetto e un brivido di piacere questo piccolo classico, letteralmente riaffiorato dal tempo, non è per soddisfare il nostro gusto nostalgico, con il quale troppo spesso si giustificano testi ingiustificabili, ma per constatare come i sessant’anni che ci separano dalla sua stesura siano una patina sottile, che un soffio basta a dissipare, un velo finissimo come la sabbia del deserto che circonda da ogni lato il luogo dell’azione.
Scritto verso la metà degli anni ’30 ma pubblicato per la prima volta solo nel 1997, Kesserich non è tale da sconvolgere il canone leiberiano, che poggia su basi solidissime (e ancor oggi d’insuperato eclettismo, a mio parere), ma certo stimola nuove riflessioni sulla capacità dell’autore di giocare, qui ancora in punta di piedi, sui territori di confine dell’immaginario, sull’esitazione che accompagna ogni esperienza con il fantastico. Qui più che altrove, il fantasma del soprannaturale è costantemente eluso per giocare sulla manipolazione della causalità, sull’invasione della mente, sulla “malattia” che contagia il reale. Ma il passo è leggero, disinvolto, a tratti consapevolmente divertito, a dispetto di qualche articolazione retorica un po’ irrigidita, come quello di chi proietta lo sguardo in avanti, perché viene sospinto e guidato non dalle regole di un genere prescelto, ma dall’originalità della scrittura che sempre porta con sé la capacità di trasgredire. Scritto nel periodo della breve corrispondenza con H.P. Lovecraft (che, sappiamo, fu prodigo di elogi per l’autore de “Il gambetto dell’adepto”), Kesserich ammicca alla tradizione, ma ancor più verso territori contigui, o altri di là da venire.