AA.VV. – L’incognita di spazio no (1969)
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La crisi che sta minando dalle fondamenta la nostra società e la nostra cultura non ha toccato che marginalmente la fantascienza. L’autore di fantascienza non si rifugia nei paradisi artificiali della droga, non si occupa di piccoli e petulanti battibecchi con i suoi vicini, non cerca nel feticcio del sesso (con tutte le sfumature del complesso di Edipo) il magico toccasana per i mali della società nella quale vive. L’autore di fantascienza è rimasto ancorato alla realtà; non ha perduto di vista l’autentica condizione dell’uomo, ha spesso raggiunto una maturità che sarebbe follia cercare nella complessa confusione degli anni che stiamo vivendo.
L’impressionante crisi che colpisce tutti i Paesi ha, naturalmente, le sue spiegazioni logiche. L’uomo ha paura. Vive da vent’anni con lo spettro della distruzione nucleare; tutte le sue tranquille convinzioni sull’isolamento della Terra nel cosmo sono miseramente crollate, con l’inizio dei voli spaziali; le terribili malattie della nostra epoca (i tumori e l’infarto) sono come una spada di Damocle perennemente sospesa sul suo capo; il maggiore benessere, o, per lo meno, la maggiore informazione che provoca fermenti e inquietudini sulle masse per troppo tempo immerse nella più completa ignoranza sono altrettante minacce a uno status quo già abbastanza precario. La reazione era logico intuirla, come l’avevano intuita alcuni grandi autori di fantascienza già dagli anni ’40: una reazione regressiva, parzialmente schizoide, che fa balzare in primo piano i motivi dell’infanzia e della prima adolescenza, una specie di paradiso perduto nel quale ciascuno vuole rifugiarsi.